23 agosto 2013

Olio di pesce e patologie degenerative della retina

In una relazione pubblicata su Trends in Neuroscience, Nicolas G. Bazan, MD, PhD, “Boyd Professor” e direttore del Neuroscience Center of Excellence al LSU Health Sciences Center di New Orleans, riferisce del ruolo che svolgono gli acidi grassi omega-3 presenti nell’olio di pesce nella protezione delle cellule della retina contro patologie degenerative, quali la retinite pigmentosa e la degenerazione maculare senile, che è la causa principale della perdita della vista nei soggetti di più di 65 anni di età.
La relazione è intitolata: “Cell survival matters: docosahexaenoic acid signaling, neuroprotection and photoreceptors” (“Questioni di sopravvivenza cellulare: segnalazione dell’acido docosaesaenoico, neuroprotezione e fotorecettori”). In queste patologie che portano all’ipovisione, le cellule dei fotorecettori (coni e bastoncelli) degenerano e muoiono. Anche se ad innescare questo processo possono essere molti fattori diversi, uno degli elementi di protezione più significativi è la stretta correlazione tra l’attività delle cellule dell’epitelio pigmentato retinico (RPE) e la quantità di acido docosaesaenoico (DHA) presente al loro interno.

La principale funzione delle cellule RPE è il mantenimento dei fotorecettori: portano avanti il lavoro quotidiano di disseminazione, internalizzazione e degradazione dei diversi segmenti esterni dei fotorecettori. Ma adesso sembra che le cellule RPE abbiano un ruolo chiave anche per la sopravvivenza delle stesse cellule dei fotorecettori. Tanto le cellule dei fotorecettori, quanto quelle dell’epitelio pigmentato retinico sono costantemente esposte a fattori potenzialmente dannosi come la luce del sole ed un’alta tensione di ossigeno.

Come le cellule riescano ad evitare di subire danni da questi e altri fattori è rimasto un mistero fino ad oggi. Il gruppo del dr. Bazan al LSU Health Sciences Center, in stretta collaborazione con colleghi di Harvard, è giunto a diverse scoperte chiave che stanno iniziando a fornire risposte a questo complesso problema. Una di queste scoperte è l’importanza del DHA. Le cellule RPE fanno fronte alla luce solare ed allo stress ossidativo, nonché ai traumi, avvalendosi di antiossidanti come la vitamina E, presenti al loro interno.

Parte della risposta delle cellule RPE sta nell’attivazione della sintesi di un importante composto dall’effetto neuroprotettivo, scoperto dal dr. Bazan e colleghi e chiamato neuroprotectina D1 (NPD1). La NPD1 inibisce geni che inducono l’infiammazione e la morte cellulare e che sono normalmente attivati dallo stress ossidativo e da altri fattori scatenanti. Le cellule RPE contengono un membro della famiglia degli acidi grassi omega-3, il DHA, che il dr. Bazan e colleghi hanno trovato essere un precursore della NPD1. 

Le cellule RPE regolano l’assunzione, la conservazione ed il rilascio del DHA nelle cellule dei fotorecettori. Il DHA, che è noto scarseggiare in pazienti affetti da retinite pigmentosa e sindrome di Usher, promuove una segnalazione cellulare protettiva, favorendo l’espressione delle proteine benefiche, al posto di quelle distruttive, nonché stimolando la produzione di NPD1. Il DHA e la NPD1 riducono anche la produzione di radicali liberi nocivi. Il dr. Bazan ha dimostrato che l’azione di promozione della sopravvivenza e inibizione della morte cellulare espressa dal DHA non è limitata alle sole cellule dei fotorecettori, ma si estendeva anche ai neuroni in un modello sperimentale del morbo di Alzheimer.

Rimangono molte questioni aperte, tra cui l’identificazione di un ulteriore recettore ritenuto essere un passaggio importante nel metabolismo della NPD1 e il rilevamento di ulteriori informazioni circa la segnalazione che controlla la formazione della NPD1. È da chiarire anche se la NPD1, o una sua controparte sintetica, possa essere efficace se somministrata a scopi terapeutici.

“Poiché le prime manifestazioni cliniche della maggior parte delle degenerazioni retiniche precedono la massiccia morte cellulare all’interno dei fotorecettori, è importante stabilire gli eventi cruciali iniziali”, nota il dr. Bazan. “Questa conoscenza potrebbe essere applicata per la progettazione di nuovi interventi terapeutici volti a fermare o rallentare il progresso della malattia.”


Fonte: LSU Health Sciences Center

Articolo tratto da Olympian's News n° 86, pag 38. Pubblicato da Sandro Ciccarelli Editore. Tutti i diritti sono riservati. Clicca qui per abbonarti!

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